Maine Road, la vera casa del Manchester City
- calcioinglese
- 22 gen 2015
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È una tiepida sera dell’estate 2003. Mi incammino come ogni volta, stancamente, col passo incerto, verso il pub. Conforto del mio cuore affaticato. Sopra di me il tramonto abbraccia il Moss Side sforzandosi di renderlo un po’ più gradevole di quello che ormai è: covo di malintenzionati e bande di ragazzini. Una volta non era così, non quando ero giovane. Ok, forse non è mai stato un quartiere elegante, ma di sicuro non è mai decaduto fino ai livelli di oggi. Sono immerso nei miei pensieri e nemmeno mi accorgo che i miei piedi agiscono per conto loro e mi portano su una strada familiare. Alzo la testa al primo incrocio e leggo: “Claremont Road”. Il cuore mi si riempie di emozioni e mi scappa un sorriso a mezza bocca. Non resisto e giro a sinistra. Maine Road. Il bastone mi trema nella mano, come fosse la prima volta. Eppure la prima volta è stata quasi 70 anni fa, quando ero solo un ragazzino e mio padre mi portò con lui. A volte faccio fatica a ricordare il nome della donna che ho sposato, ma quel giorno, no! Era la primavera del ’34, avevo circa sei anni e mio padre decise che quel giorno avrei avuto il mio battesimo pagano: Manchester City – Stoke di FA Cup.

Che giornata. Non avevo mai visto tanta gente tutta insieme, il giornale la mattina dopo parlò di 85 mila persone stipate sulle tribune, io vidi la partita sulle spalle del papà e mi innamorai subito di quelle divise celesti e bianche. Vincemmo 1-0. Tornando a casa mi ricordo che mi arrabbiai con papà: non potevo nascere 11 anni prima, quando Maine Road venne inaugurato? che razza di egoista è stato a tenersi uno spettacolo del genere tutto per sé? Ricordo ancora che, beffardamente, rispose: “poteva andarti peggio, potevi tifare Manchester United!” Sbuffo la mia approvazione, hai ragione papà. Mi siedo sui primi scalini che trovo, davanti alla vecchia Main Stand e osservandola mi perdo ancora nei miei ricordi di gioventù. Ho visto crescere questo stadio, potrebbe essere un fratello più grande per me. No, forse meglio una sorella, che c’è sempre, anche quando perdi 1-6 in casa col West Ham e la vita ti sembra faccia schifo e lei c’è comunque e ti avvolge con le sue braccia di metallo e cemento armato. È un abbraccio bello, riscaldato dall’amore reciproco tra noi tifosi e questo stadio. Se non fosse che di mamma ce n’è una sola, potrebbe quasi essere una seconda mamma. Bah. Mi sto perdendo in romanticate. Però è vero che siamo cresciuti insieme. Prima c’era una tribuna coperta a sedere e tre enormi gradinate, e nello stesso periodo in cui io varcavo i tornelli per le prime volte, la Platt Lane Stand (io la chiamavo semplicemente curva) veniva ingrandita e dotata di un tetto, così che oltre a me sulle tribune potevano prendere posto circa 88 mila innamorati come me, 88 mila pretendenti della stessa donna, quella maglia celeste che danzava sul campo. Poi arrivò la guerra, io ero ancora piccolo e non ci andai, ma molti bravi ragazzi non furono così fortunati. Come se non bastasse, la guerra ci portò in casa i cugini. Quelli rossi. Che schifo. Al solo pensiero mi irrigidisco peggio che davanti a una birra piccola. Quattro lunghi anni in condivisione, fino al ’49, e poi altre tre partite nel ’57.

Però poi ci pensai: anche grazie ai bei soldoni che ci hanno dato, noi nel ’53 ci siamo costruiti i riflettori! E qualche anno dopo abbiamo dato vita alla Kippax. Ah, la Kippax! Dagli scalini su cui sono seduto ne vedo solo un piccolo spicchio, ma tanto basta per riaccendere la memoria anche dei ricordi brutti. Come quando nel ’65 eravamo solo in ottomila a vedere la partita contro lo Swindon. Noi, pochi, in piedi, qualcuno seduto e molti a casa. Sbottai. Al diavolo! Se ami il City lo ami anche in Seconda Divisione! Poi arrivano gli anni ’70, il City torna grande e le gradinate di nuovo traboccano di gente, mostrando orgogliosamente alla nazione la nuova North Stand. Gli anni ’80 passano, e cominciano a portarsi via le mie forze. Non riesco più ad andare tutti i sabati allo stadio. Eppure Maine Road porta gli anni molto meglio di me, e continua a essere affascinante pur con qualche adattamento: una nuova Platt Lane Stand, con anche due piani di executive boxes. Mi blocco e ci penso. Chi diavolo è lo scemo che spenderebbe una fortuna per vedere una squadra in lotta per la salvezza? Di sicuro quel ragazzotto che quando canta sta fermo con le mani dietro la schiena che neanche io quando guardo i lavori in strada. E anche suo fratello. Pace, problemi loro. Poi qualche tempo dopo, era il 1994 ma la data precisa, accidenti a me, non me la ricordo, ha chiuso anche la Kippax Street Terrace. Ho aspettato mesi, ma finalmente il gran giorno è arrivato. Come era bella la nuova Kippax a tre piani azzurra dentro e bianca fuori con la scritta MANCHESTER CITY a ridosso del campo. Alzo lo sguardo e la fisso, o almeno la piccola porzione che da qui riesco a vedere. Anche ora che è vuota e che i bulldozers avanzano per eseguire la pena capitale conserva tutto il suo fascino e la sua maestosità. Ha avuto vita breve, solo nove anni, ma sono stati nove anni intensi dove a ogni gioia è corrisposto almeno un dolore. Le retrocessioni, la terza divisione, il Gillingham a Wembley, il titolo in Division One l’anno scorso e la stagione, l’ultima, appena conclusa. Mi sale immediatamente il magone. Sono passati pochi mesi, troppo pochi per poter sopportare il dolore. C’ero anche io, l’11 Maggio scorso, alla partita d’addio a Maine Road. Io e altre 35 mila persone, forse anche più di quelle consentite. Eravamo tutti lì per dare l’ultimo saluto, e una vittoria non ci avrebbe fatto schifo per onorare il momento. Chiaramente, quel giorno abbiamo perso coi Saints.

E vabbè; il City è fatto così, prendere o lasciare. Però mi consolo pensando che ero sempre lì quando finalmente, dopo 13 lunghissimi anni, abbiamo vinto il derby. 3-1. Anelka – Goater – Goater. Che goduria. Qualcuno mi ha parlato di un film su un ragazzino che gioca a calcio, e la scena finale mi pare dica più o meno: “Ma cosa c’è di meglio del Manchester United?” “Il Manchester City!”. Ben detto figliolo, chiunque tu sia! Ormai i lacrimoni stanno uscendo a spinta e io non perdo tempo a fermarli. Ma è una sensazione strana, come quando provi un grande dolore ma al tempo stesso una gratitudine immensa. Non tornerò più allo stadio, sono troppo vecchio e sono contento così. Sembra che il City stia tornando grande, forse un giorno torneremo in Coppa dei Campioni, che non giochiamo dal 1968. E forse un giorno riusciremo a vincere anche il campionato, ma non so se ci sarò ancora e se ci fossi sarebbe di sicuro l’ultimo giorno della mia vita, il mio fisico non reggerebbe l’emozione. Alzo la testa. Il blu notte ha sostituito il rosso del tramonto, e la luna splende nel cielo. Con qualche difficoltà mi alzo dai gradini e aspettando di riprendere fiato dedico un ultimo sguardo al mio stadio: grazie di tutto. Mi volto e mi incammino verso il pub, cercando di canticchiare la mia canzone preferita; non sono mai stato molto bravo con le note, ma per stavolta faccio un’eccezione. “..blue moon, you saw me standing alone..”

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